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Estratto del capitolo 16…

Capitolo 16

Dimenticare

Mi colse impreparato, mentre ancora sedevo tra leggeri pensieri di un’aria immacolata, la pioggia di un autunno che un settembre disastroso stava partorendo per me al travaglio doloroso di un giorno insensato da cui avrei attinto una confusione indistinta di ombre intrecciate che, ben presto, avrei chiamato mia vita. La sentivo, quasi indifferente, quell’acqua aerea scissa in frammenti di sottili liquidi cristalli abbattersi piano, in ogni dove di quel silenzio pacato, e tentennare soave una delicata ferita in quel muto paesaggio smarrito rinnegato dal tempo; poi calcare la mano, aumentare il frastuono, smarrire la calma, squarciare il respiro del vento, violenta avvolgermi tutto sino a seppellirmi di un velo pungente in quella indifesa posizione fetale che avevo assunto, stringendo nella morsa di un abbraccio dimesso le ginocchia al mio petto tremante, abbandonandomi proprio accanto a quella parola, ora scissa in due parti da una linea che nel mezzo la solcava, dividendo ogni disprezzata contrazione di un cuore spaccato dal suo necessario battito. Intorno solo il riflesso di gocce infinite che ovunque balzando dopo l’impeto della caduta tutta quell’aria avvolgevano di un vapore improvviso attraverso il quale scorgevo il timido esaurirsi del tempo che in passi logori e affannati sembrava, ancora una volta, sul punto di fermarsi, arrestarsi per sempre dinanzi ad un umido corpo che non smetteva di vibrare in fluide emozioni, inseguendo la traccia di una distante memoria che iniziava, finita e sconfitta, con la prima lettera di quella parola disfatta. La rividi, quella lettera e poi tutte le altre, con occhi che non seppi riconoscere, esattamente come il mio fohat la aveva scritta tanto tempo prima sul duro confine del cielo di cemento dei miei sogni. Rividi il gesto nitido della mano, sicuro, ostinato, imprimere la dolcezza di una forza nella polvere residua di una pietra sino a lasciarne il solco pulito di una parola, disperata, voluta, conquistata a colpi di sassi e di sangue. Poi dinanzi a me la sofferenza di una mano diversa, gestita dal buio di un mondo distante affogato nel vuoto di due occhi socchiusi, rinnegare ogni lettera di una ferita pentita, impugnare il rimorso di un passato insensato, stringerlo forte in un pugno di nulla assoluto, di tenebra accecante e costringerlo ad una linea perfetta capace di spezzare l’incanto di una purissima meraviglia, netta, precisa, come chirurgico taglio inflitto all’anima che avevo conosciuto, ad ogni ragione per vivere ed essere. In quella visione, mi accorsi di possederlo, quel gesto, dentro di me, e nella culla distrutta di quella parola scatenai tutta la rabbia di cui ero capace, rabbia a metà di un ventre spaccato diviso dall’odio di quel disprezzo evidente e dal morbido richiamo di una bimba impaurita che più non mi mancava. Sotto il plumbeo cielo di quell’umido martirio, sentivo il mio corpo trafitto cedere all’impeto di dardi bagnati che scoccati dall’arco di una profonda incoscienza a milioni colpivano il centro di indifesi bersagli tracciati oltre una mente confusa dall’unica linea continua di curvi pensieri, interrotti, in quel ciclico inseguirsi di amore e disperazione, rabbia e bisogno, odio e desiderio, solo dall’inconsistenza di quel gesto preciso che in un solco di un giorno coraggioso aveva tracciato il confine illusorio ove scindere per sempre, oltre ogni splendore di due occhi in un mare, il punto indistinto di alba e tramonto che da sempre tracciava il bagliore del sorriso di Zò. Li vedevo schierarsi in fronti contrapposti quei diversi e maledetti pensieri spezzati, disporsi gli uni dinanzi agli altri nella arroganza di due cieli dissimili rotti da ananda divisa in due parti, pronti alla lotta, agguerriti, ognuno a suo modo, frenetici nell’attesa di una guerra che non avrebbe lasciato superstiti. Separati, scissi, chi a difendere la notte di una sdegnante rabbia il cui eco aveva il sapore di un odio disumano, chi, invece, a proteggere un giorno di una vela lontana la cui scia era memoria dei dolci momenti di vita ormai rinnegati. Io nel mezzo di quei due universi paralleli ad arbitrare uno scontro imminente che sapevo mi avrebbe distrutto. Tutto era fermo, immobile, calmo, in quello scenario di vita sospesa che presto avrei visto esanime sul suolo di quella frattura e poi allontanarsi da me trasportata da un rivo ondeggiante che la pioggia disegnava inseguendo il profilo di una discesa, ben oltre la valle di quell’aria immacolata e deserta. Fu un attimo ed il silenzio esplose in boato assordante e sconcertante. Sentivo sopra la mia testa il fischio della rincorsa, il lampo della velocità, i bagliori di quei pensieri nella lotta sfrenata di una battaglia appena iniziata. Le armi di quei due mondi contrapposti schioccavano nello stridore del loro trovarsi, scontrarsi, ferirsi a vicenda ed in quello scioccante frastuono rimasi abbandonato in una paurosa sopportazione, costretto a trascorrere in una passività più assoluta quello che era per me il mio ultimo istante di vita. La materia concreta e tangibile di una totale insignificanza che riempiva le ansimanti narici della furia con la polvere dell’odio e del disprezzo più opprimente, stava cozzando, dinanzi all’attonito nulla della mia mente, con l’antimateria incantevole di un dolce ricordo, di un illogico bisogno, di un disperato amore e nel punto esatto ove avveniva lo scontro si poteva scorgere una dirompente esplosione, una luce accecante, un sibilo tremendo ed acutissimo. Subito dopo un vuoto silenzio, un nero giaciglio, immobile aria, puro deserto. Ogni pensiero si stava annichilendo in quella battaglia massacrante, sparendo in un punto indistinto di due cieli ribelli, lasciando le tracce di una trincea disabitata e la vertigine disumana ed insopportabile di una profonda solitudine. La desolazione straziante del mio dolore, che pur credevo di aver tollerato e rinnegato, aveva creato una terra bruciata e di nessuno su cui spargere le ceneri di quello che stavo divenendo nella totale disfatta di ogni pensiero sparito. Non era il vuoto quello a cui stavo assistendo, era semplicemente la fine di tutto, l’abnegazione di me stesso, la dissoluzione di ogni emozione. In quello scenario di fumo e carbone, mi sentivo uno scheletro privo di anima pronto a invecchiare nell’insignificante passare di ore incomprese. Sono tornato indietro di anni dopo la fine di quella guerra che non avevo per nulla combattuto e nella libertà di una verità rinnegata, ho riscoperto me stesso privo di ogni ragione, scioccato dall’incompiuta fattezza di una meraviglia che non riuscivo più a ricordare. In quell’esercizio abnorme della memoria ero ancora seduto su una scala di ferro avvolto da un sogno che doveva presto iniziare, solo, senza il profumo dell’eterno conosciuto, senza i confini infiniti di un paradiso adorato, senza due occhi in una notte di mare, senza tramonto né alba di vita, senza il mio fohat. Avevo cancellato ogni cosa, partendo da me per cancellare Zò. Non sentivo più il richiamo dell’odio né la voce incantevole di ananda e quel posto di aria immacolata era divento una tomba in cui seppellire ogni visione di vita. Chiusa la bara, sancita la lapide, solo la morte attendeva, ignara e sconosciuta, una salvezza che attinsi dal ricominciare daccapo. Era tutto finito e l’Io della mia sopravvivenza mi stava salvando costringendomi all’amnesia più spietata, al muto disappunto dell’ignoto, al diniego di ogni sogno, al delirio di desideri abbattuti. Solo una sensazione rimase nello sgomento di quella carcassa salvata: il bisogno di farle capire cosa era stata realmente per me e quanto di tutto quello aveva distrutto evadendo in una prigione di tenebra e vuoto. Sarebbe stato il mio ultimo gesto per lei e poi mi sarei lasciato andare al mio destino di fili spezzati e di cieli indecifrabili, sopravvivendo sperando di cancellare, di dimenticare, di ricominciare. Non ho pressoché vissuto per altro, da quel giorno di aria immacolata, che dimenticare ogni cosa, e qualsiasi decisione abbia preso in quei giorni di totale disfatta sempre è stata la più ovvia e la più remissiva. Cosa di cui vergognarsi. Il presente altro non era divenuto che un fastidioso ronzio di sottofondo mentre risalivo il sentiero del tempo per trovare le orme di quello che ero nella speranza di seguirne il cammino sino alla fine della mia rinascita, senza Zò. Prima, tuttavia, avrebbe dovuto sapere e nella notte di quello stesso giorno commisi il più grosso sbaglio di tutta la mia vita, del quale mai ho smesso di pentirmi, anche se quello che accadde dopo era imprevedibile, una ragione, questa, che mai è bastata, tuttavia, a rendere giustizia ad un gesto dopo il quale non ne avrei fatto seguire altri di simile portata. Fu solo nella sconsideratezza di quella idea che, lentamente, trovai il coraggio di riaprire i miei occhi, che in tutto quel frangente di disastrosa battaglia, erano rimasti socchiusi, con qualche spiraglio di timida vista, nella fottuta paura di assistere allo scempio di una catastrofe apocalittica che i miei pensieri stavano inscenando dinanzi all’ammutolito sgomento della mia dimenticanza e, racimolando la forza di trovare uno spirito capace di scuotere un corpo anchilosato nella ruggine prodotta da tutta quell’acqua che bloccava e serrava ogni articolazione, fui capace di compiere un passo, fradicio e bagnato, verso la mia moto, sentirne, subito dopo, il rombo del motore, la fredda sella a concedere un brivido e poi via, a lasciarmi alle spalle le ultime impronte di ruote riflesse nello specchio di asfalto che salutavo per sempre e l’arco magnifico di un arcobaleno improvviso, che oltre il confine di monti distanti, celebrava una pace beffarda nella quiete disarmonica della mia taciturna sconfitta. Nella mente solo quel gesto, senza risvolti, senza complicazioni alcune, limpido, chiaro, già disegnato nel folle progetto della mia pazzia. Giunsi a casa ansimante, sconvolto, tremante, entusiasta. Il tempo di una doccia veloce, di un cambio di abiti completamente zuppi e diedi avvio alla danza di quella rimasta volontà sulla balera deserta dei miei pensieri annullati. Racimolai, senza badare al loro valore, alla utilità che potessero ancora possedere, tre bianche lenzuola di cotone dal corredo che mia madre gelosamente custodiva nel più recondito ripostiglio del suo gigantesco armadio. Tre lenzuola di quelle utilizzate a ricoprire un letto matrimoniale, enormi, dal profumo di lavanda mista a qualcosa di antico, che nei piani avrei dovuto unire per creare un unico, sconfinato, striscione su cui lasciare impresso il mio ultimo messaggio per Zò. Tre insieme, mi sembrava in quel momento la dimensione sensata per le mie insensate parole. Plateale ed irriverente. Volevo che tutti vedessero, che tutti sapessero, ma passare dall’idea ad i fatti fu più difficile di quanto avessi previsto. Comporre in una sola linea di stoffa quei tre lembi di cotone purissimo significava, necessariamente, costringerli agli intrecci di un filo che insieme li avrebbe cuciti. Non ne ero capace e fui costretto a chiedere aiuto ad una mia amica, che non senza stupore e continue perplessità, decise di aiutarmi a patto che non avrei fatto nulla di cui poi mi sarei pentito, nulla di stupido. Le promisi qualcosa che dopo non seppi mantenere. Utilizzando una macchina da cucire, ne ricavò una continua linea di stoffa, pagina abnorme su cui lasciare libero lo scorrere di un pennello che, con la nera vernice che colava da ogni setola strisciante, compose, quasi senza l’aiuto della mia mano, di certo privo della logica della mia mente, queste parole:

“Grazie per quel primo giorno dei tuoi occhi, grazie per aver insegnato ad amare, grazie per la notte ed il mare, grazie per l’alba ed ogni tramonto, grazie per ogni mattina, per ogni treno, grazie per avermi ascoltato, accompagnato in una mano tra le braccia di una bimba, grazie per la fierezza e la malinconia, grazie per questa vita che stringo, grazie per queste mani che toccano, per questa vista che vede, per questa mente che comprende, grazie per gli istanti, per i giorni, per gli anni, grazie per un sorriso, per ogni lacrima versata, grazie per la gioia, la felicità, il dolore, la meraviglia, l’incanto. Grazie perché eri tu. Grazie perché eravamo noi. Mille volte grazie. Per sempre.” Il mio ultimo saluto per Zò…

Categorie:Ananda-Romanzo
  1. Dafne
    aprile 11, 2010 alle 1:06 PM

    Una pioggia di parole. Una cascata di emozioni. Le sue emozioni, le nostre emozioni e così ti ritrovi con gli occhi che scorrono veloci rigo per rigo, con un nodo alla gola, un respiro sofferto, quasi strozzato. Occhi lucidi. Più volte son stata costretta a sollevare lo sguardo, a riprendere il controllo dei sensi. A scendere con i piedi a terra, un ritorno alla realtà.
    Non meravigliatevi se queste emozioni, come un’ onda, uno tsunami, attraversano i vostri sensi, scorrono attraverso le vostre vene miste al sangue e fluiscono a volte lente, a volte come impazzite ed avvertirete l’incredibile esigenza di buttarle fuori attraverso una lacrima. Non aggiungo altro!

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